giovedì 3 giugno 2010

Crollo Wall Street e New Ideal

Di Caterina Capitummino

CROLLO WALL STREET E NEW IDEAL

Il celebre “giovedì nero” dell’ottobre del 1929: i titoli azionari crollarono di colpo.
La crisi di Wall Street scoppiò all’improvviso, ma i suoi segni premonitori vanno individuati nel fatto che si era da tempo in presenza di una crescita dei mercati azionari non giustificata dal reale valore delle aziende quotate e l’economia statunitense era caratterizzata da una forte sovrapproduzione, per cui le merci non trovano adeguata collocazione sui mercati.
Le conseguenze furono drammatiche sia sul piano interno, con un aumento vertiginoso della disoccupazione e fallimenti a catena di banche, industrie e aziende agricole, sia sul piano internazionale, perché le economie di diversi Paesi legati agli Stati Uniti ne risentivano gravemente.
L’area che più dipendeva dall’economia americana era l’Europa. Il paese che pagò il prezzo più alto fu la Germania, che alla metà degli anni Venti era riuscita a innescare una tendenza economica positiva grazie a notevoli prestiti e investimenti provenienti da oltreoceano.
Nel 1929 era presidente americano Herbert C. Hoover, rimasto fedele ai principi del liberalismo fondato sul rispetto dell’iniziativa privata e sull’astensione dello Stato da interventi diretti in economia. Questa linea di condotta non portò ad altro che a un aggravarsi della crisi.
Nel 1932 le elezioni politiche in America furono vinte dai democratici, l’uomo che propose con successo una decisa svolta politica ai suoi concittadini fu Franklin Delano Roosevelt, che restò presidente fino al 1945.
Roosevelt proponeva invece di cambiare rotta e di avviare una stagione d'intervento statale nell’economia unito a una politica di sistematico sostegno ai salari. Il ragionamento di fondo si basava sulla constatazione che la crisi non dipendeva da errori nella capacità di produzione della ricchezza, perché si trattava di una crisi di sovrapproduzione: i problemi erano nati dalla distribuzione sociale della ricchezza. La grande massa dei cittadini aveva redditi troppo bassi, o addirittura non aveva lavoro, per consentire creazione di un mercato adeguato alle capacità produttive: occorreva quindi una politica che ridistribuisse la ricchezza. Per far questo occorreva che lo Stato potesse raccogliere, attraverso le tasse, le risorse necessarie a realizzare grandi opere pubbliche, che contribuissero a risolvere la disoccupazione. Ciò comportava:
  • Una distribuzione progressiva delle tasse sui redditi
  • L’intervento diretto dello Stato in economia
  • Il riequilibrio tra i redditi dell’industria e quelli dell’agricoltura
Gli anni di Roosevelt furono quindi caratterizzati da un forte spirito di ripresa, sorretto dalla convinzione tipicamente democratica che le risorse per uscire dalla crisi andassero ricercate nella collaborazione sociale e non nel ruolo esclusivo del mercato e dei suoi operatori.
Il complesso della politica rooseveltiana dei primi anni è passata alla storia come New Deal, un “nuovo corso” che aveva l’obiettivo di porre il Paese in nuove condizioni economiche e sociali.
Si cerca di costituire una società che risolvesse i problemi economici non accentuando, ma diminuendo la distanza sociale tra i cittadini.
Il problema della disoccupazione si risolse, di fatto, soltanto con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, quando gli Stati Uniti dovettero mettere le loro potenzialità industriali e agricole al servizio di uno sforzo militare immenso.
Dopo la crisi del 1929, il cosiddetto capitalismo monopolistico non era più in grado di condizionare le scelte politiche al punto, come era avvenuto in precedenza, che i governi erano di fatto una sua espressione; adesso era lo Stato, e il Governo in particolare, a costruire una politica economica in cui i privati si inserivano

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